A un certo punto, racconta, si è dovuta tagliare i capelli, cortissimi, per cambiare, per non farsi riconoscere. “Salivo su un autobus, e mi dicevano: ma tu sei la mamma di Rocco, il bambino di Braccialetti rossi. E siccome la gente non sa distaccare, dividere te dal personaggio, finiva che mi raccontavano fatti dolorosi accaduti anche a loro, a loro amici come se io fossi davvero Piera…”. Attrice schiva, colta, abituata ai tempi del teatro dove il successo si conquista negli anni, Michela Cescon ricorda sorridendo la “popolarità” che le è piovuta addosso con Braccialetti rossi, autentico fenomeno della scorsa stagione tv della rete ammiraglia per ascolti, presenza sui social network e migliaia di giovanissimi fan. Tra poche settimane comincerà a girare sempre in Puglia la seconda stagione (ma già un terza è in programma), quattro puntate sempre prodotte dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, “e mi fa molto piacere – dice Cescon – perché con i giovani protagonisti è un piacere lavorare e perché fare i conti con la popolarità per un’attrice è importante”. Accanto a Carmine Buschini (Leo), Brando Pacitto (Vale), Pio Luigi Piscicelli (Toni) e Lorenzo Guidi (Rocco), Michela Cescon tornerà nei anni della mamma che per stare con il figlio in coma diventa la “clown” dell’ospedale.
Quarantatrè anni, diplomata alla scuola Teatro Stabile di Torino di Luca Ronconi, una lunga collaborazione con Valter Malosti, attrice con tanti premi, produttrice “per fare le cose che mi piacciono” – è lei l’artefice di The coast of utopia, il mega-spettacolo-trilogia dal testo di Tom Stoppard diretto da Marco Tullio Giordana che due anni fa ricevette premi e considerazioni – Michela Cescon l’anno prossimo sarà anche in teatro con Good people diretta da Roberto Andò, il regista di Viva l’Italia, e con Luca Lazzareschi, una commedia sulla precarietà, il lavoro, la solitudine, la forza delle donne, che ha già ricevuto applausi al Napoli teatro Festival e alla Milenesiana in forma di lettura.
Micaela partiamo dal successo tv: bello e oneroso?
“Sì, ma sono felicissima perché vuol dire che la gente ha capito che Braccialetti rossi è una fiction ben fatta, ben recitata. Sentita da tutti, a cominciare dal produttore che ha dovuto fare vere battaglie per averne i diritti. E poi è una grande storia umana. Non per niente Spielberg ha comprato i diritti per gli USA dal format originario catalano”.
Lei è un’attrice di teatro e cinema d’autore, con ambizioni culturali , interprete di storie del tipo che il pubblico “normale” rifugge. La tv la fa sentire su un altro pianeta?
“Non amo la serialità della tv, è vero. Ma se ho deciso di proseguire l’avventura di Braccialetti rossi è anche perché è un’altra cosa rispetto alle fiction solite. La regia di Campiotti è una sicurezza. Per me è stato come girare Romanzo di una strage, il film su piazza Fontana. Non c’è esasperazione dei sentimenti… Al contrario c’è dolore ma anche pudore, e magari anche gioia. Esattamente come nella vita. Certo, è un prodotto popolare, ma nell’arte c’è sempre una stratificazione, livelli diversi di percezione. Considero Braccialetti rossi un modo intelligente di rinnovare la fiction”.
E la sua Piera?
“È la mamma-mamma che tutti vorremmo. Una donna forte e piena di luce. Una bella donna”.
Una bella donna anche se un po’ matta è Margie, la protagonista di Good People, lo spettacolo che porterà in giro la prossima stagione come interprete e co-produttrice dal testo di David Lindsay-Abaire, premio Pulitzer.
“Margie Walsh è una donna single, senza lavoro e con una figlia handicappata, licenziata a causa dei continui ritardi proprio per curarla. Nel tentativo disperato di trovare una nuova occupazione, pensa di chiedere aiuto ad un vecchio compagno di scuola, Mike, che ha fatto successo e si è creato una nuova vita. E la cosa non sarà del tutto liscia. Margie, comunque, è una eroina dei nostri giorni”.
L’ha scelta per questo?
“Sì ma anche perché è una storia scritta in modo magnifico con colpi di scena, battute… Un equilibrio perfetto tra momenti dolorosi e divertenti, ironia e profondità. Un po’ sullo stile di Carnage, che ho fatto sempre a teatro qualche anno fa, ma ambientata in un contesto americano contemporaneo. È come un classico anni ’40, con varie gamme di storie e sentimenti. E poi, diciamolo, è un ruolo femminile anomalo che ne raccoglie tanti, e in Usa l’aveva interpretata Frances McDormand, attrice che adoro, perché così fuori linea”.
Anche lei è un’attrice fuori linea: a parte le scelte qualitative, lei è attrice di cinema, di teatro e e produttrice. Una superwoman.
“Sono abbastanza umile di carattere per poter fare tutte queste cose. È che mi piace lavorare e ho molta pazienza, so attendere. Non ho fretta di risultati. Il teatro è il mio vero impegno, ci lavoro giorno per giorno, leggo i testi, mi informo per avere i diritti, convinco gli altri a seguirmi nei progetti… Con Good people avevo letto questo testo e me ne sono subito innamorata. Ho battagliato per avere i diritti. Da lì tutto è stato curato nei minimi particolari: la traduzione, le persone coinvolte, il regista… Non è semplice, è un percorso spesso complicato, ma mi piace difendere le mie idee. In più il teatro in particolare è in un momento particolare: la fase della grande regia sta un po’ esaurendosi, gli attori stanno tornando a essere la centralità dello spettacolo, ma con la crisi che c’è sono sfiduciati, hanno paura. In fondo, io faccio quello che le grosse figure femminili del teatro, la Duse, la Andreini, hanno sempre fatto: prendere in mano i loro spettacoli e la loro vita”.